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L'organo alla conquista del suo futuro...


Riproponiamo in questo Forum degli articoli – che non erano più disponibili in francese, loro lingua originale – di Jean Guillou (Le Buffet d’orgue, De l’esthétique de la console d’orgue et de son importance, L’Orgue dans la perspective du siècle futur) e di Rolande Falcinelli (Étude sur l’orgue romantique apparso inizialmente nei Cahiers de l’Orgue, Tolosa 1961) che rappresentano una “difesa e illustrazione”, da parte di questi due grandi artisti, di una visione evolutiva del loro strumento.

In questi documenti essi esprimono la loro contrarietà verso una concezione storicistica dell’arte organaria orientata esclusivamente verso il repertorio del passato – addirittura di un passato remoto – e che rinnega le evoluzioni che hanno portato ad uno strumento capace di servire i compositori più all’avanguardia del XX secolo.

L’aspirazione al progresso è però tanto naturale quanto le leggi della biologia: nessun organismo vivente è statico e l’ingegno umano, dall’era preistorica fino ai giorni nostri, non ha fondato le civiltà e le tecnologie su concetti regressivi. Il volersi concentrare esclusivamente sul “ritorno a …” è un’anomalia anacronistica di alcuni musicisti – più museologi che musicisti – dei nostri giorni; così facendo, contraddicono l’ideale stesso di quei grandi geni del passato di cui professano la restituzione cosiddetta “autentica”: in effetti, non si finirebbe più di citare le prove del genio visionario di un Bach, Beethoven, Liszt ecc. che attestano quanto i limiti riscontrati sugli strumenti della loro epoca abbiano frustrato la piena realizzazione del loro immaginario sonoro (per non parlare delle restrizioni degli organici orchestrali, di cui oggi si fa un dogma, mentre Haendel, Mozart, Verdi e altri hanno manifestato il proprio desiderio di avere una maggiore sontuosità al loro servizio) e come questi musicisti abbiano reclamato e perfino suscitato dei progressi da parte di costruttori di strumenti in sintonia con loro. Non c’è dubbio che qualsiasi miglioramento per accrescere l’agio dell’esecuzione, il risultato sonoro, la sicurezza di risposta degli strumenti, al di là di quello che consentivano le tecnologie della loro epoca, li avrebbe visti entusiasti.

Per definizione, i geni che i posteri hanno riconosciuto come universali e il cui messaggio si è tramandato attraverso i secoli, si proiettavano verso il futuro, mossi da motivazioni che andavano oltre le pastoie e le contingenze del hic et nunc: è dunque un controsenso “storico” voler leggere le loro opere alla luce dei criteri che le avevano precedute, anche se non si tratta di rinnegare l’albero genealogico a partire dal quale hanno gettato le basi su cui, poi, hanno prosperato le generazioni future. Ogni creatore visionario vive costantemente nella trasmutazione, o addirittura nella trasgressione, dei supporti materiali del suo tempo; riportarlo a forza ai limiti che ha contribuito a superare significa misconoscerlo e negare la portata intellettuale del suo pensiero.

Il dramma dell’organo, e ciò che accende le passioni attorno alla sua costruzione o al suo restauro, consiste nel fatto che ha una collocazione immobile … e costosa.

Se un pianista vuole dare una dimostrazione del suono che si produceva nel XVIII secolo e interpretare delle opere di Mozart su un pianoforte di quell’epoca, oppure se un altro preferisce non rinunciare agli apporti della fattura moderna interpretando Mozart su un pianoforte da concerto dei giorni nostri, non ci sono problemi: questi strumenti si possono trasportare e sarà sufficiente tener conto dell’adeguamento acustico tra il volume sonoro dello strumento e la sala scelta per il concerto. La scelta dell’interprete (soggetta soltanto al noleggio dello strumento) potrà avvenire dunque abbastanza agevolmente, nell’ambito di una stessa zona geografica. Al contrario, la collocazione di un organo in un luogo fisso (al prezzo di considerevoli investimenti) provoca per decenni un certo orientamento del repertorio; ciò significa, nel caso in cui l’organo fosse strettamente legato a criteri estetici o storici caratteristici di una precisa epoca o scuola, che il pubblico di quel luogo si vedrà privato di parti intere del rimanente repertorio, impossibili da rendere correttamente su quello strumento. E’ la negazione stessa della vita concertistica, pluralista e rispettosa delle aspirazioni degli ascoltatori.

Suggeriamo caldamente ai nostri lettori di rileggere il capitolo Analyse technique de l’orgue, da pagina 95 a pagina 99, del libro di Jean Guillou L’orgue, souvenir et avenir (Ed. Buchet-Chastel, 3a edizione 1996): queste pagine la dicono lunga sui disastri della « psicosi da storicismo » e sull’evoluzione che deve (che dovrebbe …) irreversibilmente fare progredire l’arte organaria per metterla in sintonia con le aspirazioni dei creatori. E’ bene precisare fin da subito che queste pagine manifestano la filosofia di fondo del nostro Forum dell’organo moderno.

Prima esigenza concreta da prendere in considerazione: l’estensione delle tastiere e della pedaliera. Jean Guillou scrive (pag. 95): « Alla fine siamo ragionevolmente giunti ad un’estensione dei manuali di 61 note, da do a do, con due ottave sotto il do centrale e tre ottave sopra. Il solo prolungamento di estensione ammissibile e interessante per le tastiere manuali potrebbe essere quello verso il grave: implicherebbe un’estensione dei registri parecchio costosa ma certamente ricca di nuove possibilità espressive, se solo si sapessero utilizzare. Un altro prolungamento logico potrebbe essere quello della pedaliera, la cui estensione dovrebbe essere portata fino al do e, di conseguenza, a 37 note. I piedi potrebbero contribuire meglio all’esecuzione di partiture più complesse: l’utilizzo del pedale nelle tessiture acute contemporaneamente a quelle gravi dei manuali offrirebbe al compositore una maggiore flessibilità di scrittura. »

Nei suoi scritti, per illustrare la necessità di tastiere “complete” di 61 note al servizio di tutta la letteratura organistica, Jean Guillou si riferisce sempre non solo alla musica moderna francese derivante da Dupré e dalla sua Scuola ma anche alle Variazioni su un recitativo di Schoenberg. Rincariamo il discorso, precisando che Schoenberg, trasportato dalla logica strettamente legata alla composizione e non succube delle restrizioni di uno strumento che conosceva male, ha ugualmente sentito il bisogno di oltrepassare la sua tessitura: a proposito del famoso do diesis (al di sopra delle 61 note) della battuta 92, Rolande Falcinelli diceva, con un sorriso malizioso, che le Variazioni di Schoenberg erano fedelmente e strettamente eseguibili soltanto sull’organo sperimentale concepito da Marcel Dupré per suo uso personale (ciò nonostante i due compositori non si sono mai incontrati, nemmeno negli U.S.A.).

Effettivamente, Marcel Dupré, interessato ad avvicinare l’estensione dell’organo a quella del pianoforte, aveva fatto portare le tastiere del suo organo di Meudon a 73 note (vale a dire un’ottava supplementare all’acuto), aprendo nuovi orizzonti ai compositori innovatori, desiderosi si sentirsi liberi nella loro immaginazione, … proprio come Schoenberg.

Jean Guillou, l’abbiamo appena letto, preferisce pensare ad un’estensione verso il grave dei manuali e verso l’alto della pedaliera. Sta lavorando attualmente a progetti che integrano tastiere di 73 note ma con un ottava supplementare nel basso; speriamo di riparlare in futuro di queste innovazioni …

Ricordiamo che il pianoforte Impérial di Bösendorfer, con le sue note gravi esclusive (97 tasti – ovvero 8 ottave complete che scendono fino al do -, contro i 92 – che scendono “solo” fino al fa – degli altri gran coda della ditta viennese e gli 88 – ovvero 7 ottave e 1/3 – dei pianoforti a coda di altre marche), è nato nel 1900 su richiesta di Busoni che desiderava ritrovare sul suo strumento dei bassi profondi come quelli dell’organo. Ciò dimostra ancora una volta quanto le esigenze dei compositori stimolino i costruttori. Ancora oggi, la ditta Bösendorfer si compiace del fatto che alcuni creatori, seguendo le orme del maestro italo-tedesco, abbiano scritto pagine per il fiore all’occhiello del suo catalogo, assumendosi il rischio che siano ineseguibili su altri pianoforti (se si vogliono interpretare fedelmente). Guillou stesso ha scritto la sua prima Sonata per questo pianoforte.

E se degli organisti, impietriti nel loro storicismo, dovessero ribattere che tutto questo è inutile, visto che manca un repertorio per tali estensioni, occorrerebbe rispondere che all’epoca dei pianoforti Walter o Stein, suonati da Mozart, i Concerti di Rachmaninov non esistevano, ma che la tecnica costruttiva dei pianoforti non ha smesso di progredire dopo Mozart; oggi, siamo ben felici che esistano i Concerti di Rachmaninov (così come tutto il resto) … e questo non impedisce di certo di continuare a suonare Mozart! Si provi un po’ a suonare, invece, Rachmaninov su un pianoforte Walter! … Ridicolo, no? Eppure è a questo genere di contorsioni mentali che ci costringerebbero gli addetti della « copia d’epoca », se venissero seguiti nel loro accanimento in materia di costruzione d’organi.

Un innovatore deve preparare il terreno per i compositori del futuro e non dormire sugli allori delle conquiste che l’hanno preceduto: questo fu instancabilmente lo spirito di un Marcel Dupré, raccolto da Rolande Falcinelli, nell’intento di concepire uno strumento capace di rispondere idealmente all’immaginazione dell’improvvisatore o del compositore e, oggi, questo è esattamente l’atteggiamento di Jean Guillou, esploratore di nuovi spazi timbrici, pioniere pronto a rimettere in discussione la sua tecnica strumentale per aprirsi alle sperimentazioni dei costruttori di organi o di pianoforti.

Un altro progresso tecnologico ha considerevolmente agevolato la gestione della tavolozza timbrica dell’organo: il combinatore elettronico.

Geniale inventore, nella solitudine della sua villa, Marcel Dupré ne fu di fatto l’ideatore, il precursore, per via del registratore che aveva concepito per il suo organo di Meudon; tra i suoi appunti organologici si trova questo auspicio: « [Per l’organista] Automatizzazione di tutti i meccanismi tramite un unico comando ma lasciandoli ciò nonostante indipendenti (Registratore) ». Alla stregua della scheda perforata alla base della programmazione informatica, Marcel Dupré immaginò di perforare della pellicola cinematografica per programmare una sequenza quasi illimitata (illimitata in relazione al numero esiguo di combinazioni aggiustabili dei sistemi elettrici dell’epoca !) di cambi di registrazione; sono stati ritrovati dopo la sua morte il punzone e il supporto in legno con i quali il maestro effettuava manualmente questa operazione fastidiosa che gli consentiva di ottenere un lungo rullo di pellicola predisposto per questa o quell’opera (realizzò delle trascrizioni – inedite – di partiture d’orchestra come L’Apprendista Stregone di Paul Dukas per mettere alla prova la tavolozza costantemente in movimento consentita da questo nuovo sistema e le divisioni – coupures - delle tastiere, i sostenuti e l’ottava supplementare di cui era equipaggiato il suo organo): lo scorrimento del rullo di pellicola avveniva all’interno di un contenitore ed era azionato dai piedi tramite due comandi situati, nella console, ai lati delle staffe delle casse espressive. Il seguito della storia implicherebbe il triste racconto dei tentativi senza successo che si sono susseguiti dal 1951 al 1959 per passare alla produzione industriale di questo prototipo. Ma lo spirito visionario di Marcel Dupré era troppo avanti ai suoi tempi … Aveva immaginato perfino un traspositore elettronico funzionante tramite un sistema di 12 accoppiamenti cromatici.

In un testo del 1988 (Commentaire du texte de Marcel Dupré « L’Orgue de demain », Cahiers Marcel Dupré n°2, Tournai 1990) Rolande Falcinelli riferiva: « Non tanto tempo fa ho conosciuto un famoso – ed eccellente – costruttore di organi classici al quale ho dovuto spiegare cosa fosse il combinatore elettronico e il suo funzionamento che candidamente ignorava » !

Jean Guilou scrive (p. 109 di L’Orgue, Souvenir et avenir, ed. cit.): « L’utilizzo di questi “accessori” dell’organo [combinazioni e in seguito combinatore elettronico] è stato spesso criticato. Non c’è bisogno di una lunga frequentazione dello strumento per convincersi che il futuro dell’organo sta precisamente […] nella libertà di poter variare e combinare i registri con la più grande facilità e senza alcun asservimento […], ma che questo futuro sarà sempre limitato fino a quando al compositore-organista sarà impedito un utilizzo indipendente, comodo e vario di tutte le risorse sonore. Dover contare sulla partecipazione di uno o due assistenti per fare un cambio di registrazione – piuttosto che eseguirlo personalmente tramite una semplice pressione di un dito o di un piede che non potrà nuocere in alcun modo né al pensiero musicale né alla qualità sonora dello strumento - significa emarginarsi ancora di più dalla musica. L’essenza dell’organo è precisamente questa ricchezza, il numero incalcolabile delle sue entità sonore e delle possibili combinazioni. E’ indispensabile che questo strumento così complesso sia reso interamente accessibile ad una singola persona. »

Ciò nonostante, non più tardi del 2005, ho sentito un illustre “barocchista” che qualificava come gadgets le comodità moderne e che esaltava (!) il lavoro di squadra rappresentato dal concerto d’organo con i due assistenti ai registri: davvero un bel lavoro, il fatto di rischiare ogni momento di perdere la concentrazione o di essere alla mercè di una manovra sbagliata di un assistente! Quale pianista accetterebbe mai di dare un concerto in queste condizioni!

Per estendere questo panorama, ci sembra utile fare dei paralleli con alcune intuizioni da precursore che Marcel Dupré aveva annotato nei suoi appunti organologici (appartenenti alla collezione Falcinelli) negli anni ’40 e ’50 e con le concezioni sviluppate ai giorni nostri da Jean Guillou che non era a conoscenza di questi documenti inediti.

Innanzitutto, nel suo articolo L’Orgue de demain (1942), Marcel Dupré rifiuta per se stesso e per la sua opera la definizione di «organo sinfonico», preferendo quella che lui stesso chiama «organo policromo»: ecco una espressione che anche Jean Guillou farebbe pienamente sua.

In un documento di poco posteriore Dupré annota: « [Per l’ascoltatore] Successione dei timbri: effetto che si esaurisce rapidamente. La simultaneità dei timbri è, al contrario, il complemento della polifonia, cioè la policromia ».

Sempre Marcel Dupré: « Spersonalizzazione delle tastiere: estetica sorpassata. Individualizzazione massima per ogni registro ». E in un altro documento aggiunge: « in quanto strumento musicale, nell’organo, ogni registro deve avere la sua totale individualità ». E’ noto come Jean Guillou difenda « il principio secondo il quale ogni registro è scelto in base alle sue peculiarità di solista » (p. 216 de L’Orgue, souvenir et avenir) e come lui li qualifichi come « personaggi che entrano in scena ».

In un taccuino di aforismi – Arcanes et Pensées – scritto da Marcel Dupré espressamente per Rolande Falcinelli, quando lei si imbarcò per gli Stati Uniti nel 1950, si legge: « Ritmo: concepire, scrivere e suonare = misurato, ritmato, scandito. Queste tre condizioni sono inseparabili e fanno sì che la musica “regga” [N.d.A.: sono qui riconoscibili le caratteristiche motrici – e motoriche – dello stile di Dupré, sia nell’interpretazione che nella composizione. Costituiscono inoltre i concetti-chiave da far presente agli interpreti contemporanei per fare “reggere” la potenza delle sue composizioni]. Melodia: armatura di chiave. (Ogni sistematizzazione modale o seriale è sterile: ciò che è “di parte” diventa “parziale”). Timbri: le affinità tra ritmi e timbri ne determinano la scelta. Ogni timbro ha il suo linguaggio, melodico e armonico.». Quest’ultima frase rivela un pensiero molto più in sintonia con le avanguardie della musica del XX secolo di quanto alcuni vorrebbero credere.

L’evoluzione timbrica dell’organo consiste anche nell’invenzione di nuovi registri, cosa che oggigiorno è appannaggio di Jean Guillou; il suo nome merita di essere associato ad alcune belle innovazioni in materia, come l’Oboe en chamade, o il Cornetto Armonico (cioè composto esclusivamente da Flauti Armonici: i Flauti Armonici o le Trombe Armoniche hanno delle canne il cui corpo sonoro è due o tre volte più lungo del normale. Ciò permette una rotondità e un’ampiezza di suono straordinarie) « generoso e ricco di sapore »: « Questo nuovo tipo di Cornetto presenta uno spettro sonoro originale che non si era mai sentito finora. L’effetto è avvincente. La particolarità di questo Cornetto è quella di “disegnare” la melodia con maggior acutezza, maggiore “volontà”, se così si può dire, di un Cornetto normale » .

Chi conosce l’organo di Marcel Dupré a Meudon avrà notato il gran numero di tastiere in relazione al numero di registri. Il progetto di ampiamento e di elettrificazione firmato il 4 gennaio 1932 tra Marcel Dupré e quella che si chiama tutt’ora « Société Fermière des Établissements Cavaillé-Coll » illustra il passaggio dallo strumento costruito nel 1900 da Cavaillé-Coll per Alexandre Guilmant (28 registri su tre tastiere di 61 note, di cui 2 in espressione, e pedaliera di 32 note) a uno strumento di 34 registri ripartiti su 4 tastiere di 73 note, di cui tre in espressione, e pedaliera di 32 note.

Si ritrova una concezione analoga in Jean Guillou, ad esempio, a proposito dell’organo della Grange de la Besnardière, 28 registri ripartiti su tre tastiere e pedaliera (p. 191-192 de L’Orgue, souvenir et avenir): « Un numero maggiore di tastiere è sempre preferibile per la facilità di registrazione, di caratterizzazione e di localizzazione dei piani sonori che può offrire. I principi abituali stabiliscono che si creino degli insiemi, dei cori di Fondi, Ance, Misture in grado di assimilarsi reciprocamente, o anche di fondersi. Un approccio completamente diverso fu invece alla base dell’elaborazione di questa composizione, di quelle che l’hanno seguita, e finalmente di “quell’Organo a struttura variabile” che costituirà il traguardo di tutte le nostre ricerche. Selezionammo dunque ogni registro in base al suo valore solistico inserendolo fra quelli che ci sembravano i più necessari, i più inevitabili, così come ci si circonda degli amici più cari per il calore e la ricchezza del loro animo. Questi personaggi, li ripartimmo sulle tre tastiere e sulla pedaliera in modo che ognuno di loro potesse parlare indipendentemente dagli altri e che fosse possibile suonare combinazioni di alcuni di loro in opposizione a quelle delle altre tastiere. »

Appare, invece, una divergenza a proposito delle tastiere in espressione. Ricordiamo che l’abbandono del clavicembalo a favore del pianoforte e poi tutta l’evoluzione organologica del pianoforte derivano dall’aspirazione dell’uomo a modulare il suono, a renderlo espressivo mediante le sfumature, alla stregua di quello che può fare la voce umana. La prima cassa espressiva in un organo apparve nel 1712 e si osserva, dunque, come questo coincida con le ricerche sul pianoforte. Il romanticismo non poteva far altro che avvalersi di questo perfezionamento tecnico. Nell’arte organaria dell’inizio del XX secolo (e specialmente dove poté tradursi in pratica l’influenza di Marcel Dupré), si arrivò a due o addirittura tre (su quattro) tastiere in espressione.

Nei progetti organologici di Marcel Dupré che appartengono alla Collezione Falcinelli (certi risalgono al 1951, altri al 1958) si osserva come Marcel Dupré abbia sognato un organo interamente in espressione, in cui le sfumature di ogni registro fossero comandate elettronicamente, come per le combinazioni (poiché questo visionario geniale ha intuito, fin dagli albori dell’elettronica, i progressi resi possibili dalla sua applicazione all’organo a canne), tramite lo stesso pistoncino, capace di memorizzare la combinazione di registri e la posizione d’apertura delle casse espressive. Per realizzarlo, prevedeva 8 tacche di apertura delle casse espressive, azionabili automaticamente (aggiustabili nel combinatore elettronico), e delle spie di controllo sul frontalino della console. Uno dei suoi progetti si spinge fino a 14 casse espressive, con comandi indipendenti « per ottenere dei forte o dei piano immediati. Le persiane devono essere orizzontali, e non verticali, con stecche via via più larghe, in direzione del forte, in modo che le prime aperte producano un debole crescendo ».

Jean Guillou, a sua volta, non è favorevole a numerose tastiere in espressione, vale a dire al fatto di racchiudere tutti i registri di una tastiera in queste “casse” munite di persiane, poichè preferisce che i registri abbiano una forte presenza e che si percepisca in pieno la freschezza dei timbi individuali. E negli organi che ha concepito in tutto il mondo non si trova altro che il Récit expressif.

Questo non significa, però, che non pensi ad un’altra modalità per “l’espressione”: nel suo progetto dell’Organo a Struttura Variabile (ultima utopia del XX secolo che speriamo possa concretizzarsi nel XXI), prevede che 8 dei 15 corpi d’organo della struttura siano in espressione (tramite le classiche persiane ma questa volta in vetro), e che l’alimentazione disponga di «Variatori delle pressioni » azionabili dalle stesse staffe delle casse espressive. « Da ciò deriva che suonare quest’organo sarà completamente diverso in quanto non ci sarà la tal tastiera in espressione ma il tale o il tal altro registro, in ogni tastiera, in espressione [...] ».

Marcel Dupré richiede anche un maggior numero di tremoli in confronto alla prassi normale dell’epoca (concezione che Jean Guillou appoggia a sua volta): a volte 6, a volte 8, aggiustabili, anche loro, nel combinatore elettronico, e pensa a dei tremoli individuali su certi registri specifici.

Jean Guillou si dimostra appassionato ad un altro mezzo per rendere espressivo il suono dell’organo, la “trasmissione sensibile” che, dopo i primi tentennamenti tecnologici, sembra aver trovato una realizzazione affidabile grazie alla ditta italiana ELTEC: « Questa trasmissione, meglio di qualsiasi trasmissione meccanica, consente di rispondere esattamente al movimento del dito, lento o rapido. Il ventilabro risponde diversamente a seconda che il tasto sia abbassato interamente o a metà, permettendo di moltiplicare le possibilità di espressione, di fraseggio, di articolazione ». Ritorneremo prossimamente su questa tecnologia.

Avremo diverse occasioni, su questo Forum, di difendere la concezione dell’organo come strumento da concerto: questa lotta, instancabilmente combattuta da Marcel Dupré, Rolande Falcinelli, Jean Guillou attraverso le loro attività di concertisti e di compositori, non smette di essere d’attualità e, anzi, si rivela necessaria per ribaltare le connotazioni stantie - « fossili », dice addirittura Jean Guillou – legate al ruolo e al repertorio liturgico dello strumento, connotazioni che hanno allontanato diversi compositori contemporanei da questo strumento che ha, tuttavia, un potenziale sonoro e tecnologico futurista.

Ma nell’ambito più specifico dell’arte organaria, di cui oggi ci occupiamo, constatiamo che i maestri di cui stiamo studiando il pensiero, non guardano con grande favore alle chiese.

Marcel Dupré annota, nei suoi taccuini in stile telegrafico: « Le grandi chiese non vanno bene per l’organo. Sale rettangolari. Il suono, un po’ come il calore, sale. L’organo non deve essere collocato troppo in alto. L’ha detto Cavaillé. ».

Vedremo, ripubblicando L’Orgue dans la perspective du siècle futur di Jean Guillou, come lui denunci il ruolo di « copri miserie » assunto dall’avvolgimento acustico delle chiese nei confronti di armonizzazioni non perfettamente pure che non sarebbero accettabili in una sala da concerto priva di « travestimenti » acustici. Le Buffet d’orgue ci fornirà, analogamente, altri sviluppi su questo tema.

Marcel Dupré, invece, non ha saputo cogliere i nuovi apporti dell’organo spazializzato: per lui la sorgente sonora non poteva, non doveva essere che frontale. Di un’altra generazione, Rolande Falcinelli (nata nel 1920, dunque di poco più anziana della “generazione di Darmstadt”), su questo argomento, ha preso completamente le distanze dal suo maestro: ha vissuto l’epoca delle esperienze di spazializzazione del suono nella musica contemporanea – ricordiamo che Gruppen di Stockhausen fu composto tra il 1955 e il 1957 – non ne fu insensibile e scorse in anticipo quello che questa nuova dimensione della dinamica spazio-acustica avrebbe apportato all’organo. Jean Guillou, ancora più giovane, compì il salto e giunse a concepire questi organi spazializzati: Tenerife con i suoi 8 corpi d’organo, l’Organo a Struttura Variabile con i suoi 15. Immagina perfino una proiezione del suono completamente ripensata che scopriremo nel suo articolo Le Buffet d’orgue.

Queste evoluzioni sono riscontrabili nelle loro opere compositive; Rolande Falcinelli, nel Mystère de la Sainte Messe (1976-1982), monumento d’ispirazione ecumenica e teilhardiana per due organi (il secondo organo richiede delle risorse ben più importanti di quelle della maggior parte degli organi d’accompagnamento del coro; a dire il vero soltanto l’Organo a Struttura Variabile di Jean Guillou – opposto al grande organo della tribuna – permetterebbe una dimensione soddisfacente a quest’opera e consentirebbe di realizzare un’installazione acustica in grado di renderne perfettamente giustizia), sviluppa, per più di un’ora, una grande complessità di scrittura in cui l’arte combinatoria tra diversi tipi di modalità e la dodecafonia assume una portata simbolica; individualizzando fortemente le fonti sonore antifoniche, Rolande Falcinelli integra tuttavia la circolazione acustica del suono come fattore di percezione in movimento, e prende a prestito dal concetto di « opera aperta » la giusta dose d’indeterminazione che permette ai due interpreti di compiere evoluzioni seguendo una articolazione libera (libertà, però, delimitata da un punto di vista architettonico).

Jean Guillou, nella Révolte des orgues (2006) mette in movimento le onde sonore di otto positivi attorno all’organo principale e al percussionista, trascinando la percezione del materiale musicale da parte dell’ascoltatore in una vera e propria girandola sensoriale della durata di più di mezz’ora; le onde musicali si ripercuotono sul muro invisibile delle polarità acustiche generate dalla navata (inevitabile variabile da adeguare poiché ogni luogo d’esecuzione porrà dei problemi differenti).

E’ superfluo dire che composizioni di questo genere, mosse dal volontarismo di un utopismo preveggente, dal momento che si assumono il rischio di ignorare il realismo del concerto ordinario, aprono delle prospettive inedite verso il fantastico potenziale di contrapposizione, di rimbalzo, di zampillio dei colori reso possibile dal concetto stesso di uno strumento così polimorfo e policromo nel momento in cui se ne moltiplicano le possibilità.

Per concludere, torniamo agli appunti che Marcel Dupré ha lasciato su dei fogli di brutta copia verso la metà del XX secolo: « Riconosco che il mio sogno è per il momento speciale; occasioni di costruire rare. Ma ogni musica, compresa quella antica, deve essere suonata. »

« Non interessato (come si crederebbe) ad imitare l’orchestra o a farle concorrenza o anche ad un nuovo repertorio orchestrale all’organo. Fu non lo scopo ma il mezzo, 1°) per allargare il campo delle possibilità del compositore per organo, 2°) per definire i nuovi organi richiesti da questa tecnica. L’estetica della musica organistica è ancora nella sua fase infantile dai punti di vista seguenti: 1°) linguaggio armonico che non si sposa quasi mai con i registri impiegati; 2°) orchestrazione della musica, limitata alle possibilità meccaniche offerte attualmente agli organisti (intendo: a quelli che si preoccupano dell’avvenire e che ne hanno la visione). »

Diamo allora il benvenuto alle personalità profetiche che non hanno avuto altro desiderio (al di là delle loro aspirazioni individuali) che d’allargare il campo del possibile ai creatori del futuro (e a fortiori agli improvvisatori). Se, oggi, i compositori più all’avanguardia della nuova generazione si sentono ben accolti da Jean Guillou e possono provare le loro ricerche sul suo organo di Saint-Eustache non è forse il caso di vedere in questo la miglior riconoscenza, che consacra il significato di un percorso, e l’incorruttibilità di una visione incentrata su di un orizzonte in divenire e dell’avvenire ? ...

Sylviane Falcinelli









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